NUOVI ASCOLTI - WORU ROZE "SOIL" (2022)

"SOIL" è il terriccio, quella parte fertile del suolo su cui crescono le piante. Uno dei quattro elementi fondamentali (aria, acqua, terra e fuoco) già teorizzati dai filosofi ellenici a partire dal VI sec a.C con Anassimene di Mileto e da cui traggono origine tutte le sostanze di cui è composta la materia. 

La terra 🜃 racchiude in sè le nostre radici ancestrali e in essa il concetto stesso di "ciclo dell' esistenza": nascita, crescita e morte. Simboleggia la materia primordiale che accoglie la vita e nutre, ma anche il termine della nostra esperienza su questa Terra (intesa anche come pianeta).

Da essa nasciamo, traiamo i suoi "frutti" e in essa veniamo seppelliti. Secondo la locuzione latina: "Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris" ovvero "ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai".

C'è una stretta correlazione, quindi, tra il concetto stesso di vita e di "terra", che era più evidente nelle culture contadine del passato, ma il cui principio è fortemente radicato nel concetto stesso di "sussistenza" che può essere condizionata dal suo essere rigogliosa e accogliere la vita oppure secca e ripudiarla.

Nel caso dei Woru Roze, band Apriliana nata nel 2018 dalle menti di Giacomo (basso) e Michele (voce / chitarra), cui puoi si è aggiunta Flavia (batteria); il terreno che propongono sulla copertina del loro primo Ep SOIL sembra un limo fecondo, un po' come per gli antichi egizi lo era il kamet, la "terra nera" che durante il periodo delle inondazioni del Nilo, trasportava questa sostanza ricca di potassio che ricopriva le terre adiacenti il fiume rendendolo coltivabile.

Un fango benefico - seppur solidificato e cristallizzato al sole - che da bagnato ha avuto tutto il tempo necessario per indurirsi e creare una sottile patina screziata in superficie.

Una copertina che ben rappresenta le ricercate sonorità, che traggono ispirazione da artisti contemporanei del calibro di Nothing, Boris ed Emma Ruth Rundle. 

Il concetto di "terra", come precedentemente espresso, abbraccia da sempre tutte le etnie e comunità umane, dalle forme più ancestrali fino alle comunità più organizzate, che attorno ad essa si sono riunite per cercare risposte ai grandi quesiti dell' umanità, anche attraverso rituali o cerimonie mistiche.

"Breathe in the fire" enfatizza questa tribalità rituale, quasi si trattasse di una nenia spirituale, partendo dalla ripetitività solenne della ritmica data dall' incalzante batteria che alla scansione del tempo attraverso le pelli aggiunge i cymbals, arricchendo la mappatura temporale con un decisivo groove di basso, capace di dare un' ottima stratificazione e, assieme alla chitarra distorta e alla voce alla "Brian Molko", in grado di indurre uno stato di trance ipnotica. 

Un' atmosfera trascinante come sabbie mobili che mi evoca scenari alla Apokalyptis (Ἀποκάλυψις) di Chelsea Wolfe (2011) non priva di una certo ascendente barbiturico e tenebroso. 

La stessa percezione mantenuta in "Nautilus" che trae il nome di un mollusco cefalopodo dal sistema visivo primitivo, caratterizzato però da un olfatto ben sviluppato, che viveva nelle profondità marine nell' epoca Paleozoica. Dalla loro conchiglia buia i Wozu Roze accentuano il riverbero alla chitarra e ribadiscono l'importanza di avere un sottofondo adeguato, spesso sottovalutato in altri generi (ma qui predominante), in cui la ritmica è attiva parte del processo, creando intricati concatenamenti con talora interessanti spunti di riflessione nelle linee di basso. 

La voce non risulta mai volutamente predominante ma sommersa, quasi presa in lontananza e da eco. Anche in "The Traveller" si mantiene cullante e diluita... enfatizzando più le singole parole che hanno un valore "sonoro", più che un vero e proprio interesse a livello testuale. La parola stessa diviene appunto "musicale" in senso stretto. Qui si ha anche una significante partecipazione della chitarra che si rende però ancor più violenta in "Omen" in cui come una profetica rivelazione che ci scuote, attacca subito con un riff decisamente più graffiante e veloce, inserendo qualche repentino cambio in corso d'opera che aggiunge una certa grinta alla traccia (dal min 0.56 a seguire) ben innestata, verso metà dal min. 2.56 circa, con alcuni passaggi resi più "brillanti" al basso. 

Si passa in chiusura all' ultima delle 5 tracce in album (numero esiguo ma per un totale di circa 25 minuti totali, considerando la durata media di 5 minuti ad ascolto) ovvero "Recall Bias" o polarizzazione, deviazione dal valore medio... il nome definisce quel pattern di deviazione dalla norma o "errore cognitivo" che si tende a fare quando si tende a "dare per scontato" o assumere un fatto per veritiero, nella pigrizia selettiva del cervello di immagazzinare solo determinate informazioni. Può essere anche definito: "distorsione della memoria". Questo senso di straniamento è rispecchiato anche dalle sonorità ovviamente fortemente distorte e dall' affiancamento della seconda voce Marco Cantele (Oktopus Provance) tipico delle sonorità "shoegaze", termine coniato dalla giornalista Melody Maker Steve nel '90 per definire i c.d musicisti che in terra inglese per 2 o 3 anni spopoleranno, così definiti : "guardatori di scarpe" per via del continuo guardare verso il basso al fine di modificare gli effetti e i pedali posti sul suolo.

Partire dal suolo per tornare al suolo stesso mi sembrava appunto un ottimo punto di conclusione per un album di questo genere che dalla terra è ritornato alla terra.

Un ascolto sicuramente "catalizzante" consigliato ad ascoltatori mediamente curiosi ed affini alle totalità "psichedeliche" e "sperimentali" con un' accezione più "alternative" rock, che sicuramente troveranno un valido ascolto in questo album.

Voto 8/10


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